giovedì, ottobre 05, 2006

ICT in Italia

Riporto una cosa che scrissi un paio d'anni fa. Questo perchè sono sempre più furioso per come vanno le cose...

La fottutissima Information & Communication Technology italiana fa schifo. Nel senso che è uno dei settori di cui tanto si parla ma dove si investe pochissimo e dove vige un sistema di padronato allucinante. A mio giudizio i grossi handicap sono:

1) Assenza di una regolamentazione: non esiste un albo dei professionisti dell’ICT al quale accedere per titoli e/o esami che possa limare la miriade di smanettoni che sono in circolazione che, spacciandosi per professionisti, invadono il campo, si fanno pagare poco e schiacciano gli stipendi verso il basso. Molti di costoro sono magari bravissimi, ma la maggior parte è gente che non ha mai studiato l’informatica e l’elettronica né a scuola né attraverso un percorso formativo diverso.
2) Scarsa professionalità: conseguenza delle giungla informatica italiana. Il software, molte volte, è scritto male e funziona peggio. E magari costa una follia. Il cliente ha diffidenza verso i prodotti informatici proprio per questo.
3) Assenza totale della figura dell’informatico in Italia: chi lavora nell’ICT non ha un proprio contratto ma rientra nei metalmeccanici, nel commercio, nelle tlc, etc. Tutto questo è assurdo per un settore che dovrebbe essere all’avanguardia e garantire quindi delle retribuzioni adeguate alle competenze richieste e all’esigenza di un continuo aggiornamento. Sentirsi i “manovali del 2000” è tristemente naturale.
4) Poca Ricerca&Sviluppo: tutti la invocano, pochi la praticano. Paghiamo il fatto che la maggior parte della gente ritiene che l’informatica sia la scienza dei gestionali e che non esistano altre applicazioni oltre le maschere anagrafiche o simili. Il fatto che in Italia si scrivano quasi soltanto gestionali è dovuto al fatto che non si fa Ricerca&Sviluppo. L’informatica non è la scienza dei gestionali. La scarsa cultura informatica che si è diffusa nel paese fa credere il contrario.
5) Programmatori sottovalutati: si ritiene il lavoro del programmatore un lavoro di poco conto, sostenibile da chiunque abbia un computer a disposizione. Non è così e i risultati desolanti lo dimostrano. Chi sostiene che il lavoro di coding sulla base di una buona analisi (ma esistono le analisi siffatte?) sia una pura traduzione in linguaggio di programmazione appartiene al nutrito gruppo di chi non ha mai programmato o si è limitato a scrivere quattro scemenze, tipicamente per i soliti maledetti gestionali. In alternativa, non capisce nulla di informatica. Il coding, innanzitutto, è un’arte. Si può scrivere del buon codice e si può scrivere del pessimo codice. Inoltre, il vero programmatore inizia a divertirsi quando i problemi sorgono e le soluzioni latitano.
6) Padronato: funziona così, specie dopo la riforma Biagi. Tu sei X che cerca lavoro. La società tipo Manpower (tanto per citarne una) ti assume a tempo determinato e ti manda dal cliente. Tu lavori, magari con poca certezza del futuro e becchi 700-900 euro al mese se va bene. Manpower chiede per te 300-400 euro al giorno. Tu lavori e magari scrivi anche del bel software, dai delle soluzioni. Manpower gira qualche carta, dispensa due sorrisi e fa la fattura. A loro quasi tutto, a rischio e fatica zero. A te le briciole. Non sarebbe meglio togliere di mezzo Manpower? Il cliente spende meno, tu guadagni di più e siamo tutti felici. Tranne i tromboni di Manpower, ma sarebbe meglio che iniziassero a lavorare.


Il problema principale è, alla luce anche dei contratti vigenti, che il mestiere dell’informatico professionista con esperienza mal si adatta ad una relazione di dipendenza ma trova invece impiego opportuno in una relazione diretta con il cliente, pertanto in un ruolo free-lance.
I motivi sono i seguenti:
1) Il mestiere del progettista/sviluppatore software è principalmente un lavoro creativo ad alto contenuto tecnologico. Come tutti i lavori creativi, la soluzione ad un problema o un’idea nuova non può essere sempre concepita in un orario di lavoro standard. Spesso certe idee arrivano la notte.
2) L’orario di lavoro standard costringe il lavoratore a star seduto davanti ad un monitor per “produrre idee” o “produrre programmi” o “produrre linee di codice” come se si trattasse di tondini. Trattasi dell’applicazione di regole da inizio ‘900 quando la società industriale chiedeva all’operaio di produrre X manufatti in Y ore.
3) L’orario di lavoro più opportuno per un informatico è l’orario libero. Nel senso che, per scrivere un particolare pezzo di codice (magari non per gestionale), potrei sentirmi ispirato alle 2 di notte. Ha pertanto senso l’orario libero, che porta ad una concezione nuova del lavoro: quello per obiettivi.Il telelavoro è il modus operandi più naturale per un informatico che si occupa di progettazione e sviluppo. Con una buona linea, con le e-mail, con i cellulari, con le web-cam e tutto il resto, che senso ha muoversi ancora fisicamente nel traffico per comunicare con i colleghi? L’ironia assoluta è che gli informatici, che di questi mezzi dovrebbero essere i paladini, non se ne servano e continuino con questo stile da mezzadro.

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